Il coach-giramondo della prima storica coppa dei Campioni del Maccabi in attesa della cittadinanza italiana vive a Firenze e progetta un ritorno in panchina chiuso il rapporto con Orlando.
Dal Quensboro Bridge , il secolare ponte in ferro che unisce Long Island e il Queens a Manthattan.. Da New York a Firenze passando da Rabat, straniero della squadra del re del Marocco nella Coppa dei Campioni contro l’Ignis Varese, poi allenatore dalla Svezia a Israele per regalare la prima coppa dei Campioni al Maccabi, un trofeo per quella nazione che poteva valere come una coppa Rimet, e dentro e fuori dalla porta girevole del Basket Spaghetti. Il matrimonio più felice in Italia resta quello con la città gigliata dove risiede da 27 anni e che dovrebbe regalargli una cittadinanza italiana già nelle mani del giudice competente e attesa fra gennaio e febbraio. Da 15 anni non esercita più come coach, il suo lavoro è stato quello di scout per l’Europa delle squadre NBA, 11 anni a Cleveland, poi 1 ai Raptors e 3 con Orlando, rapporto stretto e proficuo chiusosi in questi giorni perché col passaggio di Howard ai Lakers è cambiato anche lo staff dei Magics.
– Rudy D’Amico, da dove cominciamo?
“Dal Queens, popolare quartiere di New York dove molti italiani sbarcati in America si sono fermati per trovare lavoro. Fra loro mia madre e mio padre, siciliani di Linguaglossa, un paese sotto l’Etna. Vinto una borsa di studio mi sono trasferito a Seattle, poi sono tornato a New York e allenato il Brooklyn College. Nove anni di lavoro, quindi il salto in Europa, prima tappa a Uppsala, Svezia, poi in Francia a Mulhouse. Ed è lì che mi arrivò l’offerta dal Maccabi, l’orgoglio di essere il primo a dare, nell’80-81, al Maccabi la coppa dei Campioni. L’anno dopo sbarco in Italia, la prima di tante altre belle esperienze: Brindisi, Trieste, Fortitudo Bologna, Saragozza, Firenze con due promozioni in A1, Lione, Udine, Montecatini, Verona”
– La fortuna sembra aver bussato alla sua porta una sola volta, il trionfo col Maccabi.. Mai successo che un coach non venga riconfermato, come mai?
“Sapevo in partenza che Ralph Klein che stava allenando la nazionale quando arrivai a Tel Aviv per la firma, sarebbe tornato in panchina. Lui è stato il loro coach per 12 anni. Così firmai per un anno solo. Spesso anche i giornalisti israeliani mi hanno stuzzicato su questo argomento, forse è successo perché tutti i dirigenti della squadra stavano seduti dalla panchina, ai time out scattavan in piedi, assieme ai giocatori. Era molto difficile lavorare in quel modo. Non li volevo più in panchina, alcuni evidentemente si sono offesi…”
-Parliamo della sua carriera di scout, com’è questo lavoro?
“ Si tratta di dare il maggior numero di informazioni possibile sui giocatori di tutto il mondo ai general manager affinchè abbiamo le spalle coperte e valutare su una base ampia come muoversi nel draft. O anche quando si individuano dei free agent di valore. Non è però un lavoro facile, non è possibile parlare col giocatore, col suo allenatore, o vedere un allenamento. Devi avere occhio e riscuotere fiducia”
– Quale l’occasione migliore che le si è presentata in Europa osservando i giocatori europei che poi hanno avuto successo nella NBA?
“Nel ’97 seguii in ogni occasione Pau Gasol per conto di Cleveland. Dopo la Coppa del Re a Barcellona nel quale fu premiato come MVP eravamo sicuri che lui, ancora non molto noto, potesse essere il n.8 del draft, invece inaspettatamente venne scelto da Memphis da n.3. Piuttosto è stato una vera sorpresa il fratello Marc. A 16 anni era quasi nullo, poi è esploso d’improvviso, ora è starter di Memphis ed è arrivato all’ultimo All Star Game”
– Lei seguì tutta la stagione per conto dei Raptors per garantire sulle credenziali di Andrea Bargnani.
“Sì, quando giocava a Treviso l’ho seguito passo a passo, specie nei playoff. E’ un giocatore che assomiglia a Nowitkzi come fisico, tipo di gioco, tiro da fuori. Adesso gioca anche uno contro uno quando la difesa a schierata, mi hanno colpito i suoi progressi nell’ultimo anno. Bisogna però dire che fu scelto da n.1 favorito, per la verità anche da un colpo di fortuna. Se LeBron non fosse stato scelto come 1° anno l’anno prevdente, sarebbe stato lui il top del draft al posto di Bargnani. Dopo quel blitz di Lebron, venne varata la regola che i clun NBA potevano prendere giocatori NCAA solo dopo il 2° anno”
– Chi è per lei il n.1 del basket fra Jordan e LeBron?
“LeBron è decisivo in ogni movimento che fa, attacco e difesa, è immarcabile sotto e fuori.Per questo gli Heat hanno vinto senza un vero centro e il Dream Team è riuscita a fondersi in una squadra vera, quando tante personalità in cerca di visibilità avrebbero potuto scontrarsi. Vorrei dire che lui si è quasi sacrificato completamente per la squadra”
– Quali sono i nomi più famosi che ha sulla sua agenda e può permettersi di chiamare a qualsiasi ora di notte?
“Mike Fratello, Wayne Embry, Del Harris, Jim Paxson, Dave Twardzik campione con i Trailblazers e gm con Orlando, Lou Carnesecca di St.John’s University, Rollie Massimino, Mike D’antoni, Joe Bryant, Jerry Colangelo presidente di US Basketball, Brian Colangelo gm dei Raptors, Donnie Nelson, P.J Carlesimo”
– Le squadre che vincono oggi la NBA sono più forti di quelle di una volta?
“Probabilmente sì, da quando hanno potuto prendere i giocatori al primo e secondo anno di università fisicamente e mentalmente sono riusciti ad avere il meglio. Ma è vero che senza i più bravi la NCAA si è impoverita”.
– L’episodio più curioso della tua carriera di giramondo del basket?
“Trapani’98, europei giovanili, sono lì come scout dei Cavs per seguire diversi giocatori futuribili, come Dirk Nowitzki, Tony Parker, Boris Diaw. Ero anche l’interprete per il clinic di Mike Fratello coach dei Cavs e John Calipari per la federazione italiana. Eravamo vicini al nostro hotel quando un uomo si avvici. Mi disse che veniva da Montecatini , voleva stringermi la mano. Mike e John pensavano che volesse un loro autografo, invece non li riconobbe e pensai che il basket mi aveva dato il piacere di essere riconosciuto più di due personaggi tanto famosi”
– Come vede il basket italiano?
“Lo preferivo quando c’erano solo due stranieri, oggi sono diventati tanti e non c’è più il legame di un tempo fra i tifosi, la squadra e la città. La gente vuole che giochino di più gli italiani. Comunque non vedo il basket italiano così male come sento dire e leggo. In Spagna sono più organizzati, forse è per questo che sono cresciuti di più”
-Forse una volta c’erano giocatori più forti, soprattutto fra i lunghi e qualche vero asso della NBA ci scappava.
“Sì, c’erano giocatori più forti, ma quante erano le squadre NBA all’epoca?. Oggi siamo arrivati a 30, allora si contavano sulle dita di una mano quelle pensavano all’Europa. Ecco allora la venuta di Laimbeer, Iavaroni, Morse, Del Negroi, McAdoo, JJ Anderson, Corny Thompson. Ancdhe Joh Ebeling in questa squadra poteva avere un posto”
– Pensa che Siena possa ancora lottare per lo scudetto, o non ci sarà storia per l’Armani?
“Sono un tifoso di Luca Banchi, qui a Firenze era il nostro allenatore delle giovanili e lo conoscevo bene. Poi l’ho seguito quando allenava a Livorno. Si è dato da fare per imparare la lingua, anzi è bilingue e se a volte hai 4-5 americani in squadra questo aiuta. Sa insegnare, ma al tempo stesso ascoltare i giocatori, sa caricarli, e preparato su tutte le novità tattiche”
– Per lei è prossimo un altro contratto da scout con altre franchigie, o tornerebbe ad allenare?
“Pago ogni anno per il rinnovo della tessera d’allenatore, 180 euro per i primi mesi, e ne paghi 220 dopo dicembre. Quindi è chiaro che mi piacerebbe tornare ad allenare. Questo è un momento particolare per il basket italiano, non facile e ci vuole esperienza, coraggio, come si dice in Italia “calma e gesso”
– Quale potrebbe essere il suo livello per rientrare?
“Anche assistente di una squadra di A-1, o primo allenatore di Legadue, ma dipende dal tipo di esperienza che mi si propone”
– Ma è possibile col successo che lei ha avuto a Firenze, sparita da più di tre lustri dalla mappa della A, che non le abbiamo offerto di essere il coach per un progetto mirato al ritorno in A?
“Ci sono dei club che hanno i loro allenatori, forse non mi hanno chiesto di collaborare perché sapevano che facevo lo scout. Adesso le cose sono cambiate, per una panchina posso rinunciare a lavorare per la NBA”
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