Senza Bosh Miami ancora ko, Deron Williams 57 punti

Intanto dopo 40 giorni di stop continua il mistero sull’infortunio a Bargnani per la gravità dello strappo al polpaccio sinistro, più grave di quello dell’anno scorso: dovrà rinunciare alle qualificazioni europee? Domenica, maledetta domenica per gli Heat che non riescono a festeggiare la nuova maglia “El Heat” allo Staples Center perdendo, dopo Utah la seconda gara consecutiva, per l’assenza di Chris Bosh, il nervosismo di Dwayne Wade che per la seconda volta nella sua carriera non finisce la gara per falli, condizionato certamente dal ricordo dell’azione costata nell’All Star Game  la frattura al naso di  Kobe Bryant  inarrestabile “eroe mascherato”, più di 100 punti nelle ultime 3 gare giocata con la mascherina protettiva.

Perkins tradisce Oklahoma, brutto stop ad Atlanta

Prosegue il turn over per le leadership della NBA,  la sesta squadra della Eastern Conference, Atlanta,  impedisce a Oklahoma di raggiungere le 30 vittorie e torna al comando Chicago seguita da Miami col trio  nuovamente sotto l’80 per cento.

Non bastano 60 punti del formidabile duo dei Thundercity (35 per Durant ma appena 3 su 10 dall’arco) e i 25 di Westbrook e i 10 di James Harden e di Sergi Ibaka, perché l’impalcatura soffre per un problema che la squadra si porta sempre appresso, quello di Kendrick Perkins, un centro non all’altezza delle ambizioni  di questa formazione. “Cedro” commette 6 falli in 15’, con 1/3 al tiro, 5 rimbalzi, medie insufficienti (4,6 punti e 6,4 rimbalzi) per consentire alla franchigia dell’Ovest di succedere ai Dallas nell’albo d’oro.

Belinelli scrive 14, Dallas ko con gli Hornets

Nel testa a testa fra Chicago e Miami, i Bulls  dopo San Antonio vincono anche a Cleveland approfittando dell’influenza di Kyle Irving e dell’assenza del centro Varejao e col 5° successo consecutivo tornando al comando nella Eastern Conference. Sono i primi a toccare la boa delle 30 vittorie, mentre i lanciatissimi Heat (28/8) non riescono a raggiungere le 10  vittorie consecutive. Hanno infatti pagato  l’assenza di Chris Bosh (lutto famigliare) perdendo per un punto a Salt Lake City dopo averne recuperati 18 ed essere stati avanti di 3 (97-94) nell’ultimo minuto.

Non sono bastati 66 punti del duo James (35) e Wade (31) e le 6 bombe di Shane Battier (19 punti), il contributo della panchina è stato ridicolo (14 punti totali per 8 giocatori!),  l’assenza di Bosh  è stata marcata da  un handicap di ben 18 rimbalzi (32-50) e ne hanno approfittato per mettersi  in luce i due centri dei Jazz, il titolare Al Jefferson (20 punti) e la matricola Eneas Kanter, il turco n.3 dell’ultimo draft, decisivo con 11 punti e 6 rimbalzi entrando nella galleria dei nuovi gioielli della NBA.

Oklahoma e Miami volano senza il big-man

Passato il giro di boa di metà stagione (si chiude il 14 aprile con 66 gare), la regular season offre indicazioni più chiare, perdono terreno e scendono le quotazioni campioni di Dallas e i Lakers nonostante Nowitkzy e Bryant tegano splendidamente la scena, New York si diverte (e si consola) con Jeremy Lin, amato anche dalle superstar,  e per ora la partita è fra tre squadre anche se la domanda è:  Chicago terrà il ritmo dei Thundercity e degli Heat che stanno volando? Nel mini-turno di giovedì notte le franchigie di Miami e Oklahoma hanno ottenuto infatti rispettivamente il 7° ed 9° successo consecutivo firmati di rispettivi Dioscuri, da una parte Lebron & Wade e dall’altra Durant & Westbrook.

I grandi del basket, Bob Cousy

Il libro  del basket è pieno zeppo di storie di atleti destinati a carriere modeste, divenuti poi delle vere e proprie leggende grazie ad uno strano scherzo del destino. E’ la storia, ad esempio, di Bob Cousey, scartato dai Boston Celtics nel 1950. scelto dai Tri-Cities Blackhawks, girato ai Chicago Stags e – dopo il fallimento della franchigia – finito per ingrossare le fila dei Celtics.

All’epoca in pochi avrebbero scommesso su quel playmaker minuto e poco fornito atleticamente (185 centimetri per 80 chili di peso), ma Bob fece ricredere il mondo intero, diventando in breve tempo una delle colonne dei verdi di Boston negli anni della cosiddetta Dinastia.

Incredibile senso della posizione, capacità di ribaltare il gioco, velocità di pensiero e di azione, Cousy divenne il centro del gioco dei Celtics, esaltando le doti di compagni che rispondevano ai nomi di Ed Macauley, Bill Sharman e Bill Russell. Decine e decine di assist serviti per l’attacco (19 in una sola gara nel 1959) ed anche una buona capacità realizzativa, specie nei tiri liberi, dei quali Cousy era un vero specialista (30 punti dalla linea dei liberi in una partita del ’53).

Bryant sfida i medici, Oklahoma sorpassa Miami!

“E’ una cosa seria,non si può prendere alla leggera, credetemi! In queste circostanze bisogna andare cauti, ed essere sicuri prima di giocare”.

Questa la dichiarazione rilasciata da Kobe Bryant uscendo dalla visita medica dell’ultimo minuto, prima di andare in campo mascherato dopo il serio infortunio dell’All Star Game: frattura del naso, botta al collo e lieve commozione cerebrale. Mica uno scherzo, ma la sua determinazione e la  sua classe hanno avuto la meglio in una prestazione storica e …stoica che rimarrà negli annali  della NBA per aver voluto giocare a tutti i costi, e rispondere sul campo alla polemica con il suo club riguardo le continue voci di mercato riguardanti il trasferimento di Pau Gasol. Voci  che  secondo Koby disturbano la squadra troppo legata ai suoi canestri e rientrata  Top ten in questo momento.

I grandi del basket, Kevin McHale

Non il più grande cestista in assoluto, ma sicuramente tra i migliori che abbiano mai calcato i parquet del basket americano. Parliamo di Kevin McHale, formidabile ala grande dei Boston Celtics, capace di trascinare i verdi sul tetto d’America per più di un decennio, al fianco di Larry Bird e Robert Parish.

Un americano “di importazione”, se si considerano le origini croate della madre ed irlandesi del padre, ma americano a tutti gli effetti, non solo per cittadinanza, ma anche per la capacità di trattare il pallone a spicchi come pochi altri nella storia della pallacanestro.

E dire che McHale aveva di fronte a sé una fantastica carriera nell’hockey su ghiaccio, vista la grande passione che riponeva sin da piccolo per mazza e disco. Ma l’altezza al di sopra della media gli consigliò ben presto di dedicarsi al basket, sport che gli permise di togliersi numerose soddisfazione nel corso della carriera.

Serata no di Belinelli, Chicago ne approfitta

Archiviato l’All Star Game di Orlando, un altro grande spettacolo che si riflette direttamente sulle Olimpiadi di Londra visto l’impegno dei big del Dream Team, la Regular Season è ripresa con Andrea Bargnani ancora fermo da fine gennaio (ha giocato in tutto solo 13 partite causa uno strappo al polpaccio) e Gallinari che con la sua squadra in leggera caduta  sta preparandosi al rientro fra una decina di giorni per l’infortunio alla caviglia  sinistra, frattura complessa  perché  ha rivelato una precedente microfrattura. Fra gli italiani in campo solo Marco Belinelli tradito dal tiro da 3 (3/7 totali, 0/3 dall’arco), per cui New Orleans ha pagato dazio con i Bulls di Derrick Rose (32 punti) in una partita molto equilibrata nella quale Kaman ha vinto il duello sotto canestro contro Joaquin Noah ma Chicago ha tagliato per prima il traguardo delle 28 vittorie, anche rimane sempre al 3° posto dietro Miami e Oklahoma.

I Kings a Sacramento, nuova Arena entro il 2015

Si scrive Kings e si legge, da sempre, Sacramento. Una delle franchigie californiane della Nba, che ha seriamente rischiato di dover abbandonare la città di riferimento, pare non si muova più da dov’è.

Dopo una serie di fumate nere, infatti, sembra che – lo riferisce il Sacramento Bee – il club abbia raggiunto un accordo con la città per la costruzione di una nuova arena.

Tra qualche giorno verrà reso noto il piano finanziario che l’amministrazione locale voterà il prossimo 6 marzo 2012 ma pare vi sia la disponibilità di 387 milioni di dollari per la realizzazione di una nuova Arena che dovrebbe entrare a regime dalla stagione 2015.

Le reazioni all’annuncio da parte del sindaco di Sacramento Kevin Johnson sono di giubilo:

“E’ un giorno nuovo per Sacramento – ha dichiarato il primo cittadino – un giorno importante per la nostra comunità. È fatta”,

frasi pronunciate a margine dell’intesa con George e Gavin Maloof, proprietari dei Kings.

Nba All Star Game 2012, Jeremy Evans vince lo Slum Dunk Contest

Lo Slum Dunk Contest, la gara delle schiacciate per eccellenza ha tenuto banco anche nel corso dell’All Star Game 2012 e ha incantato per le gesta tecniche messe in evidenza dai cestisti. Ad aggiudicarsi l’evento è stato Jeremy Evans, Utah Jazz, che ha letteralmente mandato in visibilio li appassionati e i tifosi del basket a stelle e strisce.

In effetti, va detto che Evans ha incantato e sorpreso tutti: vittoria conquistata con pieno merito – a votare è stato il pubblico con un sms o un tweet – sebbene fino a sette giorni prima non fosse neppure nella lista dei partecipanti.

All Star Game 2012, Kevin Love Re dei tre punti

A Kevin Love la sfida dei tiri da tre punti nel corso della cornice che a Orlando ha portato verso l’All Star Game 2012 (vinto dalla West). L’ala dei Minnesota Timberwolves, presso la Amway Center, è arrivato in finale con l’Oklahoma City Kevin Durant, battendolo in fase di spareggio con il punteggio di 17-12.

Compagno di squadra di Love, lo spagnolo Ricky Rubio aveva predetto la vittoria dell’amico collega con un messaggio via twitter nel quale ne annunciava il trionfo. Così è stato, con Love capace di conservare fino alla fine una concentrazione notevole che gli ha permesso di diventare il Re delle triple.

All Star Game 2012, vince la West Coast

Riflettori puntati sull’Anway Center di Orlando, dove nella notte si è disputata la 61esima edizione dell’All Star Game, appuntamento imperdibile per gli appassionati del basket a stelle e strisce.

La vittoria finale va alla West Coast, capace di ribaltare un risultato che sembrava scritto per tre quarti e di salire sul tetto più alto. Partita emozionante, combattuta, viva, come nella migliore tradizione dell’All Star Game, con l’East che imponeva il ritmo, facendo registrare vantaggi considerevoli sugli avversari.

Due nome su tutti, Kobe Bryant e Kevin Durant, il primo capace di polverizzare il record di Michael Jordan come marcatore principe della manifestazione (Black Mamba ha tagliato quota 271, lasciando Air Mike e 262), il secondo nominato MVP dell’All Star Game, con i suoi 36 punti finali.

I grandi del basket, Alonzo Mourning

Una mole imponente, un futuro già scritto sin da quando muoveva i primi passi alla Georgetown University, portando a spasso quei 2o8 centimetri di altezza. Lui è Alonzo Mourning, uno dei più grandi centri della sua generazione, sebbene la concorrenza negli anni a cavallo del nuovo millennio fosse agguerrita e ben armata.

A puntare sulle sue capacità furono per primi gli Charlotte Hornets, squadra senza troppe ambizioni, ma comunque ben posizionata nella Esatern Conference. L’impatto di Mourning con il mondo dei professionisti fu eccezionale, se si considera la media di 21 punti e di 10 rimbalzi a partita.

Grazie a lui gli Hornets riuscirono a qualificarsi per i play-off ed a superare il primo turno, prima di essere eliminati dai New York Knicks. La stagione successiva non fu proprio esaltante per Charlotte, sebbene Alonzo sfornasse prestazioni al di sopra della media.

I grandi del basket, Glen Rice

Molte canotte indossate in carriera, pochi titoli vinti, ma la consapevolezza di essere uno dei più grandi cestisti cresciuti sui parquet americani. Lui è Glen Rice, cresciuto a pane e pallone a spicchi nella University of Michigan, dove polverizzò un record dopo l’altro, portando il college alla vittoria nella Final Four del 1989.

Ottima capacità realizzativa sia da sotto che da lontano, tanto che nei quattro anni di college riuscì a mettere a segno la bellezza di 2442 punti. Nessuno come lui prima di allora, nessuno come lui negli anni seguenti, tanto che ancora oggi l’istituto sta cercando il suo erede.

Numeri che fanno impressione e che non potevavo non attirare l’attenzione delle franchigie dell’NBA, prima fra tutte Miami Heat, che scelse di puntare sulle sue prestazione alla fine degli anni ottanta. I Miami in quegli anni non rappresentavano il meglio del basket a stelle e strisce e Rice risentì della mancanza di esperienza della squadra. Nonostante ciò, le sue prestazioni furono sempre al top, specie nell’ultima stagione, quando riuscì a mettere a segno ben 56 punti in un solo incontro, con sette triple su otto infilate nel cesto.